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venerdì 16 novembre 2012

Sei un film anche tu quando pennelli aspetti di luoghi che non conosco ed entri con prepotenza nell'obbiettivo della tua sceneggiatura come una protagonista.


È bella la pioggia sì. Se mi faccio un film di te sul letto col cane ai piedi mi viene la pelle d'oca e inizio a cercare sotto le palpebre un'immagine viva che ti somigli nell'immaginario delle donne che ho visto, ho toccato, ho sognato. Cerco un'immagine ricca di vita, non una foto ritoccata con luci innaturali come su un set di una soap opera, perché sei viva ma io non ti vedo con i miei occhi. Cerco di vedere una sagoma sdraiata sul letto e cerco i tuoi contorni, i tuoi capelli rossi, la curva delle spalle. Vedo la foto profilo che mostri qui, le altre foto che fai vedere online e cerco di farne delle altre con la voglia di trovarti, di ricostruire il tuo corpo per intero come se io stesso lo plasmassi, seduto su una sedia nella tua stanza. Il cane ai piedi, raggomitolato come una ciambella, come il mio che dorme di là sul suo cuscino per terra. 
Russa, forse sogna, si scuote e drizza le orecchie un attimo quando sente un rumore lontano. Poi torna a dormire. Poi si riscuote. Poi va a mangiare, poi abbaia perché vuole uscire. Il mio cane mi da tanto, me lo trovo sulla pancia la mattina quando mi alzo, me lo trovo tra i piedi e mi segue fino in bagno quando c'è il temporale e cerca protezione, vuole una carezza. È geloso di mia madre se qualcuno la bacia, morde mio padre quando bacia mia madre perché mia madre è la sua donna. Mia madre è la donna del mio cane. Mio padre forse secondo il cane è uno che vive lì per caso. Ma sicuramente il letto matrimoniale non è di mia madre e di mio padre. È di mia madre e di Billy, il mio cane ovvio. Il mio cane è un cane nevrotico, è vecchio, ha l'artrite, varie cisti sotto il pelo che gli fanno male. Si comporta sempre come un cucciolo anche se ha dieci anni. Mi scalda i piedi quando studio dai miei, quando mia madre esce un attimo e lui è inquieto, non vuole stare da solo. Si siede sempre sui piedi di qualcuno quando siamo seduti a mangiare, ti abbaia quando secondo lui è tardi ed è ora di andare a letto. Il mio cane pretende che mio padre vada a letto alle nove di sera. Si incazza quando mio padre va a letto più tardi, inizia ad agitarsi, ad andare avanti e indietro per le stanze. A volte quando è incazzatoincazzato gli ringhia, come se gli dicesse "vattene a letto, diamine, spegni la luce e la televisione. voglio il buio, andiamo tutti a letto, diamine, è tardi". Come se la mattina dopo il mio cane avesse chissà quali impegni. Magari amoreggia con la cagnolina di fronte o abbaia al vicino perché non lo sopporta, lo detesta da quando era cucciolo. Il fatto è che il mio cane che impegni ha? Non deve andare da nessuna parte. Vive di amore e di gelosie, mangia e dorme.
Io invece prendo il treno tutte le mattine. Alle nove e dieci devo essere a Rogoredo, alle nove e venticinque in Duomo. Poi prendo il tram 2 direzione Negrelli, passo Porta Genova e scendo in Via Ludovico il Moro, zona EMI, ex Richard Ginori. Questa è la mia routine. Milano la vivo di non luoghi: perdo più tempo ad aspettare treni e tram che a fare altro. Sono bloccato alle fermate come una pupazzo in balia di un vento che tira o forse non tira. Mi fermo e riparto. Faccio la stessa cosa che fanno i treni, le metro, i tram, rincorro sempre gli stessi luoghi in senso ciclico. Dipendo dal salire o no, dagli orari, dal fischiare frenetico di stazione in stazione. 
Per darti un'idea, se sono in università e la mia giornata piena va dalle 10 alle 17.30 (con pausa pranzo dalle 13 alle 14.30), non sono mai a casa prima delle otto di sera. Arrivo a casa e devo cucinare, poi devo studiare. Se trovo un lavoro da fare, devo anche lavorare. In linea di massima esco pochissimo durante la settimana a meno di non fare un live o un lavoro in esterna da qualche parte a casa di Dio. Alle sei e mezza tutte le mattine sono in piedi. Scarico la tensione nei weekend, quando posso, ma non sono più uno da folli divertimenti. 
La giornata invernale classica non può iniziare senza la classica nebbia pavese sul Ponte della Becca e i pendolari infreddoliti e muti in piedi sulla banchina della stazione. I pochi che parlano, se non parlano da soli, non fanno rumore. Parlano sottovoce, con la bocca semichiusa come se la nebbia e lo stridio dei freni sui binari dovessero mascherare per forza quello che si dicono perché è indecente, non si può dire ad alta voce sui binari del treno, è quasi immaturo parlare. Alcuni se parlano parlano di continuo del freddo, rivogliono l'estate. Se invece io penso all'estate mi sale l'angoscia di tante estati tutte uguali. Mi viene in mente la Sicilia, la casa sul mare poco distante dal passaggio a livello. Sento in bocca la ghiaia del viale che ora è diventato una colata d'asfalto fino alla statale, le grida delle madri contro i figli piccoli. La casa di mio padre che è nato lì, il suo mare freddo, mia nonna che ci prepara una scodella di pasta al sugo con le melanzane fritte, le zanzare a ogni ora del giorno, l'odore forte di pesce e di carne alla griglia misto a olive e arance verdi e aspre. A me piace quel mare, con la sua spiaggia che va sparendo a ogni nuova onda. Ma quella poca sabbia la preferisco vuota, quando non c'è nessuno. Quando sei solo tu, il mare, il bagnino, e la corrente è così fredda che se ti tuffi di testa ti sembra che il cervello ti si congeli nel cranio. Quando emergi inizi a sentire un po' di calore, ad abituarti, anche se dopo poco devi uscire per forza se no diventi blu e inizia a mancarti il respiro. Quando è freddo il mare è più pulito, non ci sono meduse, è pieno di pesci, si vede il fondale. Quando c'è tanta gente che urla la spiaggia è sporca, il mare è un brodo caldo pieno di meduse e l'acqua è affollata di corpi di tutti i tipi che fanno scappare i pesci. 
Non ho amici in Sicilia, non sono mai riuscito a legare con nessuno nel breve tempo della mia permanenza estiva. Siamo io, il mare, i pranzi e le cene coi parenti. Sono ormai tre anni che non scendo più proprio perché non so cosa fare. In realtà ci sarebbero tante cose da fare, ma non da solo. Vorrei portarci qualcuno. Portarti al bowling poco distante da casa mia e fare una passeggiata sul lungomare. Vagare tra le palme e i fichi d'india fino al museo del Satiro che di sera è ancora più bello nel suo bronzo verde iridiscente. Portarti a Segesta o Selinunte a vedere una commedia greca quando il sole tramonta di un rosso sangue dietro il teatro e il marmo del tempio luccica quasi se qualcuno l'avesse costruito accatastando cristalli di sale. Ammirare le ceramiche dei quartieri tunisini della città e il loro microcosmo a parte, la loro cultura nascosta. Le loro case di pietra, il cous cos e il profumo di spezie mi ricorda Istanbul, il gran bazar pieno di gente, le danzatrici del ventre e il tè alla mela. 
Mi piacerebbe tornare anche lì, come mi piacerebbe tornare in Norvegia, in Grecia, a Londra, a Edimburgo, a Parigi. Ad Amsterdam. Vorrei rivedere i fiordi in una stagione più umana, riprovare il brivido dello slittino a mezzanotte. 
Vorrei tornare in tanti posti rimasti con la vita vissuta in quei giorni in mezzo al petto. Avevo quattordici, diciottanni, ventanni, il tempo passa e si raschia via di tutto. Qualcosa rimane perché te lo tieni, ti aggrappi alle foto che hai fatto, ai sapori che hai sentito, ma tutto con gli anni è sempre più attutito, lontano e a volte credi addirittura di inventarti di sana pianta nella tua testa dei profumi, degli odori che in realtà in quei posti non hai mai sentito o ti sembra di avere la sensazione di aver fatto cose che se le hai fatte non le hai fatte proprio così, è solo una parvenza costruita di realtà. Inizi a confonderti tra i tuoi ricordi e vorresti avere impresso un codice meno ermetico per non sommare esperienze sensoriali di luoghi diversi, per non fare un pastiche indigesto o ingigantire emozioni minori. Vorresti poter fare il backup dei tuoi dati, mettere tutto in una chiavetta USB e avere la possibilità di riguardare certi momenti preziosi come se fossero un film. Il tuo film. Sei un film anche tu quando pennelli aspetti di luoghi che non conosco ed entri con prepotenza nell'obbiettivo della tua sceneggiatura come una protagonista. Un film che vorrei proiettare in camera mia, quando piove a dirotto e il rumore ritmico della pioggia culla i sogni più leggeri. Il film di un film che parla di acqua che cade dalle grondaie e scivola sui vetri: tu sdraiata sul tuo letto e io sulla mia scrivania con la lampada al neon a forma di tucano accesa. Due anime affacciate allo stesso specchio che ci permette di comunicare, mentre fuori le gocce si spaccano sulle strade. Di fianco a noi tutto quello che non possiamo dirci, perché siamo solo delle dita su una tastiera che battono a mezzanotte delle lettere. Tutto quello che è la mia voce che senti e non senti. La mia voce che parla senza parlare. La tua voce che mi arriva al petto senza dire. Io ce l'ho una voce, tu una voce ce l'hai. Mi piacerebbe una voce così anche se non dovessimo parlarci mai. Mi basterebbe sentirti così, la tua voce, senza voce, quando non la posso sentire perché abita con un altro che vorrei sparisse in uno schiocco di dita, col cane di un altro, sul letto di un altro. Sentirei anche così. Sentirei più di così. Tanto la gente non sente niente, non ascolta niente. La gente scarica migliaia di mp3 e non li ascolta. Li scarica e basta e li tiene lì. La gente skippa le tracce, la gente lascia le cose a metà e non capisce la bellezza di un brano quando finisce. Quei secondi di silenzio tra una canzone e l'altra in un album. Il vinile una volta quando finiva il lato A dovevi girarlo per passare al lato B. Il vinile si sentiva dall'inizio alla fine. Ora la gente dall'inizio alla fine non fa più niente. Preferisce arrendersi prima, scappare, correre. Perché abbiamo dei treni da prendere, perché dobbiamo sempre fuggire. Puoi entrare ovunque, tanto ti ho già fatta entrare. Hai la chiave di porte che io non conosco. 




Questo è il posto dal quale vengo, del quale non mi riesco ad immaginare neanche l'odore, ma al quale sono molto legata. Vivo in Italia da così tanti anni, che mi sento più italiana che altro. Sono fiera delle mie origini, nonostante io abbia perso le tradizioni, gli usi, i costumi, l'unica cosa che ho tenuto sono la lingua e il cibo.
Nonostante i giornali non ne parlino mai bene, nonostante ci accomunino troppo spesso a orde di zingari. Non assomiglio neanche ai miei compaesani, tutti fatti con lo stampino, io così diversa da loro in tutto, tutti li a 20 anni a progettare matrimoni, case, figli da fare, feste, mentre io non vedo l'ora che arrivi la sera per sentirmi viva.

                    Cosa mi ricordo del mio Paese?

Mi ricordo di mia nonna Marianna, dei suoi capelli corvini, i suoi occhi color nocciola, le sue mani grinzose, il suo bel viso, la pelle olivastra, la cultura mentale che un'altra donna della sua età non dovrebbe avere in un paese soggetto al Comunismo. La sua forza, l'andare avanti anche avendo perso il marito a 40 anni.
Non risposarsi .
Vivere sola in una casa immensa, e non sapere più come occuparsi delle bestie, dei campi, dei vigneti e dei frutteti.
Mi ricordo la stufa di terracotta bianca coi disegni blu in camera da letto, alta come la parete e con una base di 1m x 1m.
Ricordo le galline col ciuffo sulla testa e le piume sulle zampe, ricordo il profumo di mele appena fuori dalla porta d'entrata, e al solo alzare lo sguardo 2 alberi di melo rosso si ergevano imponenti, quasi a fare da scudo alla casa. Sembravano le mele di Biancaneve, rosse, succose, invitanti.
Ricordo la casa color turchese, col tetto argentato, i disegni sullo stipite, la paglia e la ghiaia sparsi in cortile, i cavalli nella stalla, l'orto lì vicino, il pozzo dove è morto il nonno, quel pozzo dove all'età di 2 anni mi ritrovavo a girarci attorno chiamandolo, cercandolo, senza rendermi conto che lui lì era morto e lì ci sarebbe rimasto, che non mi avrebbe più portato in spalla, che non avrebbe più gattonato con me, e che non ha avuto l'occasione di conoscere gli altri nipoti.
Ricordo l'odore di quella paglia, del fienile, dei tuffi che ci facevo, del fastidio sulla pelle.
Ricordo le pulci, che mi solleticavano la pelle, ricordo che adoravo mia nonna,  per me c'è sempre stata, lei è venuta anche in Italia per starmi vicino, lei non mi avrebbe mai abbandonata.
Cosa mi ricordo? Sono passati 10 anni ormai e ti parlo dei 2 mesi che passai lì senza mia madre, senza mio padre. Solo con mia nonna.
Ricordo bene il bosco, ricordo bene una mattina che ci siamo andate, io e lei a piedi, abbiamo camminato per ore, abbiamo raccolto i funghi, ci siamo divertite a giocare a nascondino, mi sforzo di ricordarmi quel bosco, quegli alberi alti che in Italia non ho ancora avuto l'occasione di vedere, l'ululato dei lupi, la tana dei cinghiali su cui volevo giocare, ma mi ha fermato in tempo, il terreno umido e freddo su cui sono scivolata, la mia eco che risuonava tra le fronde, e il suono della sua voce che mi ritornava indietro. Non sono più riuscita a trovare boschi così, così infiniti, da camminarci le ore in rettilineo senza trovare la luce, la via d'uscita, spaventosi a tratti, quasi come quelli in cui si era imbattuta e smarrita Biancaneve. 

Mi vorrei accendere una sigaretta, così per aspirare un pò di morte, cercarmela da sola, come se non fosse abbastanza quello che ci fanno respirare in giro, quello che ci fanno mangiare e le scorie che ci attaccano come se fossimo un bersaglio prestabilito.

Frugo  nella borsa, cerco il pacchetto di Winston, lo apro, sono quasi finite (ma mi basteranno fino a domani, tanto per quanto io fumi di solito, potrebbero durarmi anche un anno..basta che non esca fuori a bere), ne prendo una, la guardo con disdegno, la vorrei riporre al suo posto accanto alle sue compagne, esito, ma alla fine cedo, prendo il PC con me, cerco l'accendino, anche lui rosso, anche lui così pronto a darmi quella boccata di morte.
Entro in bagno, mi nascondo, Giò non vuole che io fumi, non dopo la polmonite che ho avuto quest estate, ma ora non è in casa, è al lavoro e prendo fiato, ascolto Max Pezzali " Lo strano percorso", guardo il video , e penso "Cocciante per ora basta così, sei troppo triste e malinconico per i miei scarlatti giorni".
Aspiro, aspiro con avidità quella piccola mandante di veleno, quella morte gratuita, canticchio, canticchio col fumo che mi esce dalla bocca, e mi sento ridicola, mi sento un pò bambina, mi sento come quando guardavo i film coi grandi e si presentava la scena del bacio e mi mettevo le mani davanti agli occhi. Mi piacerebbe sentirmi ancora  come quando ero bambina, mi piacerebbe essere ancora una esile ragazzina di 25 kg, alta 1.45, coi capelli biondi come quelli degli angeli, con gli occhi verdi e coi denti separati, con l'amore per gli animali, con zero preoccupazioni, che andava bene a scuola, che piaceva a tutti, che era sempre con un sorriso pronto per tutti, spontaneo, che amava stare coi bambini disabili e farli giocare, con la gioia di vedere l'albero di Natale, ecco cosa mi sono dimenticata di raccontarti.
L'albero di Natale, della magia che ha perso con gli anni, col crescere, del giorno che ho rotto le palle a mia Nonna, l'ultimo Natale di 10 anni fa, del pino gigante che mi aveva messo in corridoio, preso da quel bosco , quel bosco ora era entrato nel mio territorio, ma adesso non mi faceva più paura perchè era in  casa mia e lui non la conosceva. Ero io a comandare. Solo anni dopo ho scoperto che mia nonna, morto il nonno, non aveva più festeggiato il Natale, non è più andata in Chiesa, non ha più preso alberi di Natale, regali. 
Mio nonno adorava il Natale, comprare l'albero, i regali per me e i suoi figli, organizzare feste e cene. 
Mi sto rattristando, penso a lui, a come io lo ricordi solo da una foto, l'unica che abbiamo insieme, io una piccola monella di 2 anni, lui alto, massiccio, imponente , moro, scuro, coi baffi neri, con la camicia colorata e con dietro il fienile in un giorno d'estate, di torrida estate. La settimana dopo è morto. Non aveva mai voluto farsi fare foto, neanche al matrimonio, e così dal nulla dopo 45 anni ha voluto farsi delle foto con me. Ecco cosa mi rimane di lui.
Ora non festeggio neanche io più il Natale, faccio regali a 2 persone, perchè devo, non perchè veramente me la senta. Io e mia madre sono 5 anni come minimo che non festeggiamo più insieme, anzi che non passiamo neanche più in casa le feste, io sono sempre in montagna (prima con parenti e ora per i cazzi miei ) e lei sempre al lavoro o con le sue amiche, coi suoi amici, amanti. Non amo le feste, non amo il giorno del mio compleanno, pasqua carnevale, e quali altre stupide feste si sono ancora inventati. La mia festa comincia al calar del sole all'orizzonte. La mia feste comincia quando sento i boccali di birra schioccare e sento il pronunciare del "CHEERS".
Ecco come la vedo. Scusa le ripetizioni. Se dovessi scrivere meglio questo testo ci starei su altre 3 ore, ma nella sua imperfezione, rappresenta la realtà così com'è, come sono confusionari  i miei pensieri.


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